Trapani Erice Segesta

trapani erice segesta

il racconto virgiliano

Dopo la fuga precipitosa dalle isole dei Ciclopi, rasentando la costa sud-occidentale della Sicilia e scorgendo via via Camarina, Gela, Agrigento, Selinunte, le navi sorpassano Lilibeo ed entrano nel porto di Drepanon (Trapani): qui muore Anchise. L’anno successivo, dopo la lunga sosta a Cartagine, i troiani approdano nuovamente a Drepanon, dove vengono celebrati i giochi in memoria di Anchise. Intanto un gruppo di donne, stanche del lungo peregrinare, su istigazione di Giunone incendia alcune delle navi: Enea decide così di lasciare in Sicilia quanti non vogliono proseguire, anziani, donne e bambini, e per loro viene fondata la città di Acesta e un tempio a Venere (Ericina), nonché un luogo di culto per Anchise.

Drepanon – Trapani

“Di qui mi accoglie il porto e la spiaggia che non dà gioia di Drepano. Qui spinto da tante bufere di mare, ahimè, perdo il padre, sollievo di ogni affanno e sorte, Anchise”
Eneide III, 707-710
L’antica Drepanon era situata sul promontorio a forma di falce (da cui il nome in greco) ove ora sorge il centro storico di Trapani.
Veduta di Trapani da Erice

Secondo Dionigi di Alicarnasso, appena sbarcato a Drepanon Enea incontra un gruppo di troiani che, partiti subito dopo l’incendio della città sotto la guida dei due condottieri Elimo ed Egesto, già da qualche tempo si erano stanziati in Sicilia: una parte dei compagni di Enea sarebbe poi rimasta con loro e questo gruppo di Troiani “continuò nel tempo ad essere denominato elimo” (I, 53, 1). In questo racconto dello storico Dionigi, in cui Enea, l’eroe legato al destino di Roma, viene descritto in atteggiamento benevolo nei confronti di Egesto ed Elimo, sono in realtà adombrati ed anticipati ad una lontana età mitica i rapporti di amicizia che si instaurarono fra Roma e Segesta all’epoca della prima guerra punica. Nel coevo racconto virgiliano, invece, è presente Acesto (corrispettivo di Egesto), figlio di madre troiana e del locale fiume Crimiso; nell’Eneide, invece, gli elimi non vengono mai menzionati in modo esplicito.
Il popolo degli Elimi, che occupava l’estremo occidente della Sicilia, si distingue per lingua, cultura e tradizioni, dagli altri popoli indigeni dell’isola, I Sicani e i Siculi. I racconti sulle loro origini troiane derivano, con ogni probabilità, dalla realtà storica delle frequentazioni micenee e fenicie, anteriori alla fase della colonizzazione greca di epoca storica. I centri principali furono Segesta, Entella ed Erice, della quale Drepanon era il porto. Quando nel 260 a.C. i Cartaginesi distrussero Erice, trasferirono i suoi abitanti a Drepanon, che da quel momento fu fondata come città, diventando una delle loro più importanti basi navali. In epoca romana fu un porto molto vivace ed attivo, ma senza lo stato giuridico di città.
Anche se finora non si conoscono resti monumentali della sua storia più antica, la città attuale conserva i segni della sua complessa stratificazione culturale, dal quartiere ebraico della Giudecca, ai ruderi medievali del Castello di Terra o della Colombaia, fino alle numerose chiese gotiche e barocche. Sulla punta occidentale si trova la Torre di Ligny, torre di avvistamento edificata nel 1761, oggi sede del Museo di Preistoria; sul lato opposto l’imponente costruzione del Lazzaretto, del sec. XIX.

La Torre di Ligny
A sud del porto si trova la Riserva Naturale Orientata delle Saline di Trapani e Paceco, Sito di Interesse Comunitario (SIC) per le sue preziose caratteristiche faunistiche e vegetazionali: si tratta di una delle più importanti aree umide costiere della Sicilia occidentale, area di sosta degli uccelli nella rotta di migrazione verso l’Africa.
Saline di Trapani e Paceco

Erice

“Allora sulla vetta ericina è fondata una sede vicina agli astri per Venere idalia, al tumulo di Anchise attorno assegnato un sacerdote ed un bosco sacro.”
Eneide V, 759-761
Secondo la leggenda greca la città degli Elimi sarebbe stata fondata da Eryx, figlio della dea Afrodite e del re locale Butes: in onore di sua madre, Eryx avrebbe istituito il famoso santuario, che, come testimonia lo storico Polibio (I, 55, 8) era posto proprio sulla rocca più alta della città. Una diversa tradizione, ricordata anche da Cicerone e ripresa da Virgilio, ne attribuisce invece la fondazione allo stesso Enea. Sul sito del santuario sorge il Castello normanno, detto di Venere, che si è impostato su una spianata in parte sostruita da mura a grandi blocchi irregolari: un tratto è detto “muro di Dedalo”, perché secondo la tradizione, riportata anche dallo scrittore Diodoro Siculo (IV, 78, 4), la struttura sarebbe stata costruita dal mitico architetto per contenere il picco di roccia che rischiava di franare.
Il Castello Normanno
Sappiamo da Strabone (VI, 2, 6) che il santuario era costituito da un tempio circondato da un portico, ma in realtà ne sono rimaste solo esigue tracce archeologiche: pochi resti di strutture, forse di fondazione o di sostruzione di una ampia terrazza artificiale che probabilmente sosteneva l’edificio sacro, e un’area lastricata verosimilmente scoperta.
La spianata all’interno del Castello Normanno dove sorgeva il santuario di Afrodite
Il culto della dea avveniva con un rituale analogo a quello della Astarte di Cipro: su un altare all’aperto e senza sacrifici cruenti di vittime. Sacre a Venere Ericina erano delle colombe, che scomparivano una volta all’anno per nove giorni, durante i quali si credeva volassero fino in Africa settentrionale, a Sicca Veneria, dove c’era il santuario gemello di Astarte. Il prestigio del santuario è provato dal fatto che il senato romano impose a ben 17 città siciliane di offrire corone d’oro al luogo di culto e creò una guardia speciale di 200 schiavi armati, chiamati Venerii.
Testina in marmo di Afrodite
(Erice, Museo Comunale A. Cordici)
La città elima fu conquistata da Dionisio di Siracusa nel 397 a.C.: gli Ericini, spaventati dall’esercito siracusano, si sarebbero arresi senza combattere, anche perchè ostili ai Cartaginesi. Questi ultimi, però, si impossessarono di nuovo della città l’anno seguente, finché durante la prima guerra punica, nel 260 a.C., la distrussero completamente risparmiando solo il santuario e spostandone gli abitanti a Drepanon. Con la fine della guerra, nel 241, tutta la Sicilia occidentale passò sotto il dominio romano. Da allora il santuario di Venere Ericina diventò uno dei più venerati, a causa della tradizione che vedeva Romani ed Elimi profondamente uniti dalla comune origine troiana.
Un tratto del circuito murario della città con una torre ed una posterula
In epoca imperiale Erice perse la sua importanza strategica, ma assunse di nuovo un ruolo centrale come presidio della costa e del vasto territorio sottostante sotto i Normanni, che rinforzarono le fortificazioni e cambiarono il nome del paese e del monte in San Giuliano, conferendo al centro l’aspetto attuale. Il centro storico presenta un impianto urbanistico tipicamente medievale, con piazzette e strade strette. Erice è oggi sede del prestigioso Centro di Cultura Scientifica “Ettore Majorana”.

Approfondimenti

Informazioni aggiuntive

segesta

“In Sicilia Segesta è una città antichissima, per il fatto che credono sia stata fondata da Enea in fuga da Troia, che giunse in questo luogo. Così i Segestani ritengono di essere legati al popolo romano non solo da un vincolo perpetuo e da amicizia, ma anche da una parentela”
(Cicerone, in Verrem Act. II, lib. IV, 33)

Segesta (per i Greci Egesta o Aigesta), la città più potente degli Elimi, fu in costante conflitto, fin dall’epoca arcaica, con la ricca e potente Selinunte, la colonia greca più occidentale della Sicilia: la rivalità terminò bruscamente nel 409 a.C. quando Segesta chiamò in aiuto i Cartaginesi, i quali distrussero Selinunte dopo un breve assedio. Nel 307 a.C. la città fu conquistata per breve tempo dal greco Agatocle, tiranno di Siracusa, che le cambiò il nome in Diceopoli e vi insediò una colonia militare. Tornò presto indipendente, ma nel 260 a.C. passò definitivamente sotto il dominio dei Romani che, in nome delle comuni origini troiane, esentarono la città dal pagamento dei tributi dovuti. Conferma archeologica del legame antico della città con le origini troiane sono le monete coniate da Segesta nel corso del III sec. che portano l’immagine di Enea il padre Anchise sulle spalle.

La città è strettamente legata al racconto del mitico viaggio di Enea, cantato da Virgilio nell’Eneide, come punto di arrivo dell’eroe troiano sulle coste laziali.
Secondo la tradizione ripresa da Virgilio, infatti, appena sbarcato Enea fece il primo sacrificio, in un luogo presso il fiume Numico (oggi Fosso di Pratica: Numico_1), dove poi sarebbe sorto un santuario dedicato a Sol Indiges. Inseguendo una scrofa bianca gravida, l’eroe percorse una distanza di 24 stadi: qui la scrofa partorì trenta piccoli e il prodigio offrì ad Enea un segno della volontà degli dei di fermarsi e fondare una nuova città. L’eroe incontrò Latino, il re della locale popolazione degli Aborigeni, il quale, dopo aver consultato un oracolo, capì che i nuovi arrivati non dovevano essere considerati degli invasori, ma come uomini amici da accogliere. Enea sposò dunque la figlia di Latino, Lavinia, e fondò la città di Lavinium, celebrando la nascita di un nuovo popolo, nato dalla fusione tra Troiani e Aborigeni: il popolo dei Latini. Il mito racconta che Enea non morì, ma scomparve in modo prodigioso tra le acque del fiume Numico e da questo evento fu onorato come Padre Indiges: Il padre capostipite.

La piazza pubblica della città aveva una pianta rettangolare, ornata sui lati lunghi da portici, su cui si aprivano diversi edifici: uno di questi aveva forse la funzione di “Augusteo”, luogo dedicato al culto imperiale, come sembra indicare il ritrovamento di splendidi ritratti degli imperatori Augusto, Tiberio e Claudio. Sul lato corto occidentale si affacciavano un edificio elevato su un podio, forse la Curia (luogo di riunione del governo locale), e un tempio, risalente ad età repubblicana.

Il santuario, situato ad est della città antica, era dedicato alla dea Minerva, che a Lavinium è dea guerriera, ma anche protettrice dei matrimoni e delle nascite. È stato trovato un enorme scarico di materiale votivo databile tra la fine del VII e gli inizi del III sec. a.C., costituito soprattutto da numerose statue in terracotta raffiguranti soprattutto offerenti, sia maschili che femminili, alcune a grandezza naturale, che donano alla divinità melograni, conigli, colombe, uova e soprattutto giocattoli: le offerte simboleggiano l’abbandono della fanciullezza e il passaggio all’età adulta attraverso il matrimonio


Eccezionale il ritrovamento di una statua della dea, armata di spada, elmo e scudo e affiancata da un Tritone, essere metà umano e metà pesce: questo elemento permettere di riconoscere nella raffigurazione la Minerva Tritonia venerata anche in Grecia, in Beozia, e ricordata da Viirgilio nell’Eneide (XI, 483): “armipotens, praeses belli, Tritonia virgo” (O dea della guerra, potente nelle armi, o vergine tritonia…)

Il culto del santuario meridionale nasce in età arcaica ed era caratterizzato da libagioni. Nella fase finale il culto si trasforma invece verso la richiesta di salute e guarigione, documentato dalle numerose offerte di ex voto anatomici. Sono state trovate iscrizioni di dedica che ricordano
Castore e Polluce (i Dioscuri) e la dea Cerere. La molteplicità degli altari e delle dediche è stata interpretata come testimonianza del carattere federale del culto, quindi legato al popolo latino nel suo insieme: ogni altare potrebbe forse rappresentare una delle città latine aderenti alla Lega Latina, confederazione che riuniva molte città del Latium Vetus, alleatesi per contrastare il predominio di Roma.

Dionigi di Alicarnasso, vissuto sotto il principato di Augusto, afferma di aver visto in questo luogo, ancora al suo tempo, nel I sec. a.C., due altari, il tempio dove erano stati posti gli dèi Penati portati da Troia e la tomba di Enea circondata da alberi: «Si tratta di un piccolo tumulo, intorno al quale sono stati posti file regolari di alberi, che vale la pena di vedere» (Ant. Rom. I, 64, 5)
Alba

Lavinium fu considerata anche il luogo delle origini del popolo romano: all’immagine di Roma nel momento della sua espansione e della crescita del suo potere era utile costruire una discendenza mitica da Enea, figlio di Venere, onorato per le sue virtù, per la capacità di assecondare gli dèi; di conseguenza si affermò anche la tradizione per la quale Romolo, il fondatore di Roma, aveva le sue origini, dopo quattro secoli, dalla medesima stirpe di Enea.
Secondo questa tradizione Ascanio Iulo, il figlio di Enea, aveva fondato Alba Longa, città posta presso l’attuale Albano, dando l’avvio a una dinastia, che serviva per colmare i quattrocento anni che separano le vicende di Enea (XII sec. a.C.) dalla fondazione di Roma (VIII se. a.C.), quando, dalla stessa stirpe, nacquero i gemelli Romolo e Remo, secondo la tradizione allattati da una lupa. Questi erano dunque i nipoti del re di Alba Longa. La madre era Rea Silvia e il padre il dio Marte. Romolo uccise Remo e poi fondò Roma nel 753 a.C. Lavinium diventava così la città sacra dei Romani, dove avevano sede i “sacri princìpi del popolo romano”.

Il Borgo sorge su una altura occupata nell’antichità dall’acropoli di Lavinium. In età imperiale vi sorge una domus, testimoniata da pavimenti in mosaico in bianco e nero (Borgo_1). Una civitas Pratica è ricordata per la prima volta in un documento del 1061, mentre nell’epoca successiva si parla di un castrum che fu di proprietà del Monastero di San Paolo fino al 1442. La Tenuta di Pratica di Mare, comprendente anche il Borgo, allora definito “Castello” (Borgo_2), divenne poi proprietà della famiglia Massimi e in seguito fu acquistata nel 1617 dai Borghese. Il principe Giovan Battista, nel tentativo di valorizzare il territorio con l’agricoltura, ristrutturò il villaggio nella forma che ancora oggi rimane, caratteristica per la sua pianta ortogonale e la sua unitarietà. Dalla metà dell’Ottocento la malaria, che devastava la campagna romana, causò lo spopolamento del borgo, finché Camillo Borghese dal 1880 si impegnò nell’opera di ricolonizzazione, restaurando il palazzo e intervenendo con una importante opera di riassetto della tenuta, dove fu impiantata una singolare vigna a pianta esagonale. Il Borgo e la tenuta rappresentano una preziosa area monumentale e agricola ancora intatta all’interno della zona degradata di Pomezia e Torvaianica.

Moneta coniata da Segesta nel III sec. a.C. raffigurante Enea che porta il padre Anchise sulle spalle
Le rovine di Segesta sorgono tra montagne selvagge e isolate, in un ambiente maestoso e suggestivo. La città era situata su un ampio altipiano e sembra fosse protetta da due cinte murarie; l’abitato, scarsamente esplorato, è poco noto e si articolava in terrazze che permettevano di superare i notevoli dislivelli. L’edificio meglio conosciuto è il teatro, risalente al IV-III sec. a.C.: la cavea è in parte appoggiata al pendio del colle, in parte sostenuta da un potente muraglione a blocchi, mentre l’orchestra ha forma ad U; le parodoi scoperte, che separano la cavea dall’edificio scenico, sono decorate da figure del dio Pan.
Il teatro
Il monumento più noto di Segesta è il tempio dorico, situato appena fuori dall’area urbana, in posizione enfatica, straordinariamente conservato. L’edificio, datato al 430-20 a.C., si compone in realtà del solo peristilio esterno di 6×14 colonne, che appaiono non ancora scanalate, coronato da architrave, fregio e da due bassi timpani; inoltre manca completamente la cella interna del tempio. Si tratta dunque di un edificio che, per ragioni sconosciute, non fu mai finito.
Tempio dorico

Per saperne di più

P. Barresi, “Il culto di Venere ad Erice in età romana: le testimonianze archeologiche”, in A. Filippi, S. De Vincenzo, Tra Cartagine e Roma: i centri urbani dell’eparchia punica di Sicilia fra VI e I sec. a.C., Berlino 2013

F. Coarelli, M. Torelli, Sicilia, Roma 2000

A. Ferjaoul, T. Redissi (a cura di), La vie, la mort et la religion dans l’Univers Phénicien et Punique : actes du VIIème congrès international des études phéniciennes et puniques, Hammamet, 9-14 novembre 2009, Tunis, 2019

S. Medas (a cura di), La devozione dei naviganti: il culto di Afrodite Ericina nel Mediterraneo, Atti del Convegno Erice 2009, Lugano 2010, pp. 161-171

D. Musti, “La storia di Segesta ed Erice tra il VI ed il III sec. a.C.”, in Archivio storico siciliano, 1, 1988-89, pp. 155-171

IN BREVE

La Sicilia ha avuto sempre un ruolo centrale nel quadro mediterraneo, come appare evidente dalla sua complessa vicenda storica. Nell’antichità vide la presenza, spesso concorrenziale, di genti sicule, di Greci e Fenicio-punici, in un complesso intreccio di alleanze e scontri, di interferenze e mescolanze tra le diverse componenti etniche. E la Sicilia fu anche il teatro di racconti mitici, dalla saga omerica di Ulisse al viaggio di Enea nel racconto virgiliano.

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