Lavinium

LAVINIUM

"In quel tempo i Troiani, fuggiti insieme ad Enea dalla città di ilio, che era stata catturata, giunsero a Laurento, lido degli Aborigeni non lontano dalle foci del Tevere. Ricevuto dagli Aborigeni del terreno in cui abitare e quanto ritenevano necessario per vivere, costruirono su una collina un po’ discosto dal mare una città, che chiamarono Lavinio"
Dionigi di Alicarnasso, Antichità Romane, I, 45

la scoperta

Il luogo di Lavinium fu riconosciuto già nel ‘500 da Pirro Ligorio, ma, nonostante ripetuti ritrovamenti avvenuti a partire dal XIX secolo, l’esplorazione archeologica della città antica ha avuto inizio solo nel 1955 con le ricerche di Lucos Cozza e Ferdinando Castagnoli; quest’ultimo ha organizzato indagini sistematiche, che sono proseguite per alcuni decenni a cura dell’Università di Roma Sapienza.

Il racconto mitologico di Dionigi di Alicarnasso

Nell’antichità si sovrapposero nel tempo molte tradizioni diverse della leggenda di Enea, tramandate da autori greci (come Ellanico di Lesbo, Damaste di Sigeo, Timeo di Tauromenio) e latini (Fabio Pittore, Catone, Varrone, ecc.), delle quali ci sono giunti per lo più vaghi echi. Solo due narrazioni sono compiute: quella di Dionigi di Alicarnasso, molto articolata, e quella di Virgilio, le quali non sempre concordano, evidentemente perché derivate da fonti differenti, o, nel caso di Virgilio, perché frutto di libere rielaborazioni poetiche.
C.G. Lorrain, Lo sbarco di Enea nel Lazio, 1675
(Anglesey Abbey, National Trust)
(da Carandini, Cappelli 2010)
Nel racconto di Dionigi i Troiani giungono sulla costa nel territorio laurentino dove si verificano i prodigi che gli oracoli consultati durante il loro viaggio avevano indicato come segno della meta raggiunta: prima per dissetarli sgorgano improvvisamente delle sorgenti (nei pressi delle quali lo storico ricorda due altari, orientati uno ad est e l’altro ad ovest, “strutture troiane”); poi, molto affamati, mangiano persino le “mense”, le focacce su cui avevano disposto i cibi; infine la scrofa gravida che stanno per immolare agli dèi in un sacrificio rituale di ringraziamento riesce a scappare. Enea, con alcuni dei suoi, la segue perché capisce che è l’animale descritto dalla profezia come quello che gli avrebbe mostrato il luogo dove fondare la sua nuova città. Dopo una corsa di 24 stadi (circa 4.400 metri) verso l’interno, la scrofa si ferma a partorisce trenta porcellini: una voce divina suggerisce ad Enea che quello è il luogo destinato e che dopo tanti anni quanti sono i nuovi cuccioli sarà fondata dalla sua stirpe una seconda città, ancora più grande e prospera (la futura Alba Longa). Enea sacrifica allora la scrofa e i piccoli ed avvia la costruzione della città cui darà il nome di Lavinium: le mura, gli edifici e i templi. Quello in cui vengono deposti i Penati, gli dei patri portati da Troia, è descritto da Dionigi di Alicarnasso nel luogo più alto della città (quindi sull’acropoli) e in aspetto di una capanna (kaliàs), quindi verosimilmente un edificio rotondo. Quelle terre sono abitate dal popolo degli Aborigeni: il loro re, Latino, al loro arrivo si allarma, ma in sogno gli appare un dio che lo invita ad accogliere gli stranieri. Troiani e Aborigeni stipulano così un patto di reciproco rispetto e di alleanza ed insieme combattono contro i Rutuli della vicina città di Ardea, guidati dal loro re Turno. Latino concede in sposa ad Enea la propria figlia, Lavinia, dalla quale deriverà il nome della nuova città. I due popoli uniscono usanze, leggi e riti e chiamano se stessi con il comune nome di Latini. Alla morte di Latino Enea diventa re e deve di nuovo affrontare i Rutuli, alleati con gli Etruschi il cui re è Mezenzio. In questa guerra Enea scompare e poiché il suo corpo non viene più trovato, viene creduto assunto fra gli dei, o perito nel fiume Numico, e il Latini gli erigono un monumento.
La Foce del Numico, oggi Fosso di Pratica
A questo punto del racconto lo storico Dionigi offre una notizia importante: il monumento per Enea è ancora visibile ai suoi tempi e lo descrive come “un piccolo tumulo intorno al quale sono state poste file regolari di alberi, che vale la pena di vedere”, che reca una iscrizione dedicatoria “al padre e Indiges del luogo che tiene il corso del fiume Numico” (Ant. Rom. I, 64, 5). E infatti Enea fu onorato come Pater, capostipite, con l’appellativo di Indiges, nel senso di “interno”, “insito”, di qualcuno che giace nel fiume.

la variante virgiliana

A scapito della coerenza geografica Virgilio fa approdare Enea alla foce del Tevere per introdurre una variante al mito in funzione del legame con Roma, rappresentata dalla città del mitico re arcade Evandro sul Palatino, il cui nome deriverebbe da Pallantium, città dell’Arcadia. Scesi dalle navi, i Troiani stanchi e affamati mangiano persino le focacce (le mense) su cui hanno disposto i cibi ed Enea allora si rende conto che il loro viaggio è al termine, perché si è avverata la profezia dell’Arpia Celeno, secondo la quale sarebbero arrivati nella terra loro destinata dal Fato quando avrebbero mangiato le mense. Enea manda una ambasciata al re Latino, che offre ospitalità agli stranieri, accetta i loro doni e promette in sposa ad Enea la figlia Lavinia.
F. Bol, Enea alla corte del re Latino, olio su tela, 1661
(Amsterdam, Rijksmuseum)
Scoppia la guerra con i Rutuli: ad Enea appare in sogno il dio Tiberino, che lo incoraggia e lo invita a risalire il Tevere verso la città di Pallanteo per chiedere aiuto ad Evandro, re degli Arcadi; gli dice anche che troverà sulle rive del fiume una scrofa bianca che partorirà trenta piccoli, tanti quanti saranno gli anni che trascorreranno finché suo figlio Ascanio fonderà Alba Longa. Il prodigio della scrofa bianca avviene la mattina dopo ed Enea sacrifica l’animale e i suoi piccoli a Giunone. Evandro lo accoglie con favore, gli assicura il suo sostegno e lo invita a recarsi, insieme a suo figlio Pallante, a Cerveteri dagli Etruschi, dai quali Enea ottiene sostegno contro i Rutuli. Durante gli scontri Pallante muore, ucciso da Turno; poi Enea uccide sia Mezenzio che suo figlio Lauso; infine il poema si chiude con la morte di Turno ucciso da Enea in duello .

i luoghi e la storia

Il più antico insediamento stabile di Lavinium, risalente all’età del bronzo e alla prima età del ferro, è sulla piccola collina che poi diventerà l’acropoli e, in età moderna, il Borgo di Pratica di Mare. Già dal VII sec. a.C. l’abitato inizia ad occupare il pianoro sottostante ed è difeso da potenti mura in scheggioni di cappellaccio. Nel VI sec. a.C. la città assume una fisionomia decisamente “urbana”: le abitazioni, formate da più vani, si dispongono secondo un assetto regolare; il circuito difensivo viene reso più solido e rifatto in blocchi squadrati; dalla porta orientale, munita di un bastione difensivo, esce una strada diretta verso la costa, lungo la quale sorge il santuario meridionale delle XIII Are e, alla sua estremità verso il mare, il santuario di Sol Indiges. In questo stesso periodo alle pendici collinari ad est della città nasce il santuario di Minerva. Il santuario meridionale rappresenta una delle più importanti espressioni della cultura latina arcaica. A quanto pare privo di un vero e proprio edificio templare, comprende tredici altari di tufo, costruiti in uno spazio a cielo aperto e tutti rigorosamente orientati ad est. Furono eretti progressivamente a partire dal VI sec. a.C., fino a saldarsi in una sequenza che alla fine del IV sec. a.C. comprendeva 12 altari allineati, alcuni dei quali in seguito restaurati e ricostruiti, finché alla fine del II sec. a.C. il santuario fu definitivamente abbandonato. Va sottolineato, comunque, che la costruzione degli altari non è il frutto di un progetto unico, ma il risultato di un lento processo fatto di aggiunte e sostituzioni. Vicino agli altari è stato scoperto un edificio di epoca arcaica, di notevoli dimensioni e composto da più ambienti, di funzione incerta, ma certamente connesso con le attività del santuario. Anche si conoscono serie di altari in Grecia e Magna Graecia, la sequenza delle are di Lavinium rappresenta un esempio del tutto eccezionale. Si è pensato ad altrettante divinità ai quali ciascun altare doveva essere consacrato: nell’area sono state ritrovate infatti infatti due lamine bronzee iscritte, una con una “legge sacra” per Cerere, l’altra con una dedica ai Dioscuri, che dovevano essere affisse su donari posti nei pressi degli altari. E’ da ritenere dunque che il santuario fosse aperto alle numerose e diverse città latine in un culto comune.
Le Tredici Are
Proprio a questa area sacra è connesso quello che si ritiene essere l’heroon di Enea, monumento commemorativo dell’eroe troiano.
L’heroon di Enea: interno del tumulo
Si tratta di un tumulo funerario, visto da Dionigi di Alicarnasso e descritto come tomba del padre comune della stirpe dei Latini (patèr chtònios), poi identificato con Enea, che ha attraversato tre diverse fasi costruttive: in origine, alla metà del VII sec. a.C., conteneva una sepoltura ad inumazione all’interno di un cassone di lastre di pietra, probabilmente la tomba di un sovrano del più antico abitato, sepolto con oggetti personali ed un ricco corredo.
Ricostruzione della più antica tomba a cassone (VII sec. a.C.) con il suo ricco corredo
Prima della metà del VI sec. a.C., in corrispondenza cronologica con la costruzione del più antico dei tredici altari, la sepoltura venne manomessa, con scopi cultuali che non conosciamo, e come offerta riparatoria vi furono deposti due vasi, certamente collegati con una offerta di vino, una oinochoe di bucchero e una grande anfora vinaria.

Approfondimenti

Informazioni aggiuntive
Oinochoe di bucchero e anfora vinaria rinvenute nell’heroon di Enea
(da Museo Archeologico Lavinium 2013)
È possibile dunque che già in questa fase il personaggio sepolto sia stato identificato dagli abitanti di Lavinium con il Pater Indiges, il Progenitore, importante e ancestrale divinità locale latina, collegata con il fiume Numico. Infine, alla fine del IV sec. a.C., subito dopo la guerra latina del 338 e lo speciale patto stretto con Roma, che riconosceva in Lavinium la sede dei Penati (troiani) del popolo romano, l’antico tumulo ricevette una diversa sistemazione monumentale, con un ingresso aperto (pronao) e una cella inaccessibile, chiusa da una finta porta di pietra a due battenti.
La monumentale finta porta dell’heroon di Enea esposta al Museo Civico Archeologico Lavinium
Si tratta di un intervento che rendeva il tumulo simile ai tumuli eroici della Troade e alle contemporanee sepolture regali della Macedonia: è la prova che nel re fondatore di Lavinium, sepolto nella più antica tomba a cassone, veniva ormai riconosciuta la mitica figura del Pater Indiges identificato con Enea, progenitore dei Romani e del nomen latinum.
Ricostruzione dell’heroon di Enea
Perciò Lavinium sarà considerata il luogo delle origini del popolo romano: all’immagine di Roma nel momento della sua espansione e della crescita del suo potere era politicamente utile costruire una discendenza mitica da Enea, figlio di Venere, onorato per le sue virtù e per la capacità di assecondare gli dèi. La discendenza “troiana” di Roma sottolineava l’alterità fra Romani e Greci, ma in un rapporto paritario di fiducia e lealtà, un legame fra genti che rispettano le leggi umane e divine, i patti e i doveri di ospitalità. Di conseguenza si affermò anche la tradizione per la quale Romolo, il fondatore di Roma, aveva le sue origini dalla stirpe di Enea in quanto discendente dei re di Alba Longa. Sull’Ara Pacis a Roma, monumento eretto dall’imperatore Augusto, sono raffigurati l’eroe troiano con il piccolo Ascanio, mentre fanno un sacrificio ai Penati appena giunti a Lavinium.
Ara Pacis (Roma): Enea, con il capo velato, compie un sacrificio agli dei appena giunto a Lavinium; di fronte a lui il figlio Ascanio, in alto a sinistra il tempio dei Penati portati da Troia
L’altro importante santuario extraurbano era dedicato a Minerva, una Minerva Iliaca legata alla leggenda troiana. Anche se finora non sono stati scoperti edifici sacri monumentali, il santuario ha restituito straordinari reperti, fra cui un centinaio di statue in terracotta, databili in un arco di tempo compreso fra l’inizio del V e la fine del III sec. a.C., per lo più rappresentazioni simboliche degli offerenti; inoltre statue della divinità, sia come Palladio, riproduzione in terracotta della antichissima immagine di legno che proteggeva la città di Troia fin dalla sua fondazione sia nel suo aspetto guerriero. Quest’ultima, risalente alla metà del V sec. a.C., appare armata di spada, elmo e scudo e affiancata da un Tritone, essere metà umano e metà pesce: questo elemento permettere di riconoscere nella raffigurazione la Minerva Tritonia, venerata anche in Grecia, in Beozia, e ricordata da Virgilio nell’Eneide (XI, 483): “armipotens, praeses belli, Tritonia virgo” (O dea della guerra, potente nelle armi, o vergine tritonia)
Statuetta raffigurante il Palladio dal santuario di Minerva
Statua in terracotta di Minerva Tritonia (V sec. a.C.)
Appena fuori dalle mura, lungo la strada verso Ardea, è stata rinvenuta una importante tomba a camera, in origine inglobata in un tumulo, che conteneva quattro deposizioni, una – la più antica – in urna, le altre in sarcofago, databili tra VI e V sec. a.C., con straordinari oggetti di corredo, fra cui un’anfora di bucchero con una iscrizione etrusca. La posizione del sepolcro, appena fuori della porta più importante della città, il tipo del tumulo e la straordinaria qualità dei materiali di corredo indicano che il sepolcro doveva appartenere ad una eminente famiglia della città in cui furono seppelliti, ad intervalli di tempo, solo i personaggi di rango più elevato. Le indagini di scavo eseguite nell’area urbana hanno portato in luce alcune strutture risalenti alla media e tarda età repubblicana (IV-II sec. a.C.): oltre ad abitazioni e a diversi impianti per la produzione della ceramica, soprattutto un settore della piazza del Foro, con un tempio ed un edificio identificato con la Curia. Nell’età imperiale la piazza viene circondata da portici e si arricchisce di un sacello dedicato ad Iside, di una fontana e di un “Augusteo”, luogo dedicato al culto imperiale, come sembra indicare il ritrovamento di splendidi ritratti degli imperatori Augusto, Tiberio e Claudio. Nel II sec. d.C. furono costruiti nella città un grande edificio porticato adibito a sede del Collegio dei Dendrofori ed due edifici termali, di cui uno, riccamente decorato, fu successivamente restaurato dagli imperatori Costantino e Licinio tra il 313 e il 316 d.C, come documenta una iscrizione monumentale.
Terme occidentali di Lavinium: architrave con iscrizione che ricorda il restauro dell’edificio da parte degli imperatori Costantino e Licinio
(archivio Soprintendenza sabap-rm-met)

Per saperne di più:

F. Castagnoli, Lavinium I. Topografia generale, fonti, storia delle ricerche, Roma 1972v
F. Castagnoli, Lavinium II. Le tredici are, Roma 1975
Enea nel Lazio, archeologia e mito, catalogo della mostra, Roma 1981
F. Zevi, “Note sulla leggenda di Enea in Italia”, in Gli Etruschi e Roma, Atti dell’incontro di studi in onore di Massimo Pallottino (Roma 1979), Roma 1981, Roma pp. 145-158
A.M. Jaia, “1995-2015. Sessant’anni della missione archeologica della “Sapienza” a Lavinium”, in Giornata di studio per il decimo anniversario dell’istituzione del Museo Archeologico “Lavinium”. Ferdinando Castagnoli: dalla ricerca archeologica nel Lazio arcaico alla valorizzazione del territorio, Roma 2017, pp. 17-25

La città è strettamente legata al racconto del mitico viaggio di Enea, cantato da Virgilio nell’Eneide, come punto di arrivo dell’eroe troiano sulle coste laziali.
Secondo la tradizione ripresa da Virgilio, infatti, appena sbarcato Enea fece il primo sacrificio, in un luogo presso il fiume Numico (oggi Fosso di Pratica: Numico_1), dove poi sarebbe sorto un santuario dedicato a Sol Indiges. Inseguendo una scrofa bianca gravida, l’eroe percorse una distanza di 24 stadi: qui la scrofa partorì trenta piccoli e il prodigio offrì ad Enea un segno della volontà degli dei di fermarsi e fondare una nuova città. L’eroe incontrò Latino, il re della locale popolazione degli Aborigeni, il quale, dopo aver consultato un oracolo, capì che i nuovi arrivati non dovevano essere considerati degli invasori, ma come uomini amici da accogliere. Enea sposò dunque la figlia di Latino, Lavinia, e fondò la città di Lavinium, celebrando la nascita di un nuovo popolo, nato dalla fusione tra Troiani e Aborigeni: il popolo dei Latini. Il mito racconta che Enea non morì, ma scomparve in modo prodigioso tra le acque del fiume Numico e da questo evento fu onorato come Padre Indiges: Il padre capostipite.

La piazza pubblica della città aveva una pianta rettangolare, ornata sui lati lunghi da portici, su cui si aprivano diversi edifici: uno di questi aveva forse la funzione di “Augusteo”, luogo dedicato al culto imperiale, come sembra indicare il ritrovamento di splendidi ritratti degli imperatori Augusto, Tiberio e Claudio. Sul lato corto occidentale si affacciavano un edificio elevato su un podio, forse la Curia (luogo di riunione del governo locale), e un tempio, risalente ad età repubblicana.

Il santuario, situato ad est della città antica, era dedicato alla dea Minerva, che a Lavinium è dea guerriera, ma anche protettrice dei matrimoni e delle nascite. È stato trovato un enorme scarico di materiale votivo databile tra la fine del VII e gli inizi del III sec. a.C., costituito soprattutto da numerose statue in terracotta raffiguranti soprattutto offerenti, sia maschili che femminili, alcune a grandezza naturale, che donano alla divinità melograni, conigli, colombe, uova e soprattutto giocattoli: le offerte simboleggiano l’abbandono della fanciullezza e il passaggio all’età adulta attraverso il matrimonio


Eccezionale il ritrovamento di una statua della dea, armata di spada, elmo e scudo e affiancata da un Tritone, essere metà umano e metà pesce: questo elemento permettere di riconoscere nella raffigurazione la Minerva Tritonia venerata anche in Grecia, in Beozia, e ricordata da Viirgilio nell’Eneide (XI, 483): “armipotens, praeses belli, Tritonia virgo” (O dea della guerra, potente nelle armi, o vergine tritonia…)

Il culto del santuario meridionale nasce in età arcaica ed era caratterizzato da libagioni. Nella fase finale il culto si trasforma invece verso la richiesta di salute e guarigione, documentato dalle numerose offerte di ex voto anatomici. Sono state trovate iscrizioni di dedica che ricordano
Castore e Polluce (i Dioscuri) e la dea Cerere. La molteplicità degli altari e delle dediche è stata interpretata come testimonianza del carattere federale del culto, quindi legato al popolo latino nel suo insieme: ogni altare potrebbe forse rappresentare una delle città latine aderenti alla Lega Latina, confederazione che riuniva molte città del Latium Vetus, alleatesi per contrastare il predominio di Roma.

Dionigi di Alicarnasso, vissuto sotto il principato di Augusto, afferma di aver visto in questo luogo, ancora al suo tempo, nel I sec. a.C., due altari, il tempio dove erano stati posti gli dèi Penati portati da Troia e la tomba di Enea circondata da alberi: «Si tratta di un piccolo tumulo, intorno al quale sono stati posti file regolari di alberi, che vale la pena di vedere» (Ant. Rom. I, 64, 5)
Alba

Lavinium fu considerata anche il luogo delle origini del popolo romano: all’immagine di Roma nel momento della sua espansione e della crescita del suo potere era utile costruire una discendenza mitica da Enea, figlio di Venere, onorato per le sue virtù, per la capacità di assecondare gli dèi; di conseguenza si affermò anche la tradizione per la quale Romolo, il fondatore di Roma, aveva le sue origini, dopo quattro secoli, dalla medesima stirpe di Enea.
Secondo questa tradizione Ascanio Iulo, il figlio di Enea, aveva fondato Alba Longa, città posta presso l’attuale Albano, dando l’avvio a una dinastia, che serviva per colmare i quattrocento anni che separano le vicende di Enea (XII sec. a.C.) dalla fondazione di Roma (VIII se. a.C.), quando, dalla stessa stirpe, nacquero i gemelli Romolo e Remo, secondo la tradizione allattati da una lupa. Questi erano dunque i nipoti del re di Alba Longa. La madre era Rea Silvia e il padre il dio Marte. Romolo uccise Remo e poi fondò Roma nel 753 a.C. Lavinium diventava così la città sacra dei Romani, dove avevano sede i “sacri princìpi del popolo romano”.

Il Borgo sorge su una altura occupata nell’antichità dall’acropoli di Lavinium. In età imperiale vi sorge una domus, testimoniata da pavimenti in mosaico in bianco e nero (Borgo_1). Una civitas Pratica è ricordata per la prima volta in un documento del 1061, mentre nell’epoca successiva si parla di un castrum che fu di proprietà del Monastero di San Paolo fino al 1442. La Tenuta di Pratica di Mare, comprendente anche il Borgo, allora definito “Castello” (Borgo_2), divenne poi proprietà della famiglia Massimi e in seguito fu acquistata nel 1617 dai Borghese. Il principe Giovan Battista, nel tentativo di valorizzare il territorio con l’agricoltura, ristrutturò il villaggio nella forma che ancora oggi rimane, caratteristica per la sua pianta ortogonale e la sua unitarietà. Dalla metà dell’Ottocento la malaria, che devastava la campagna romana, causò lo spopolamento del borgo, finché Camillo Borghese dal 1880 si impegnò nell’opera di ricolonizzazione, restaurando il palazzo e intervenendo con una importante opera di riassetto della tenuta, dove fu impiantata una singolare vigna a pianta esagonale. Il Borgo e la tenuta rappresentano una preziosa area monumentale e agricola ancora intatta all’interno della zona degradata di Pomezia e Torvaianica.

IN BREVE

Secondo il racconto degli autori antichi l’antica Lavinium fu fondata da Enea, giunto infine sulle coste del Lazio dopo la sua fuga da Troia e le lunghe peregrinazioni nel Mediterraneo. L’area archeologica con il santuario dei Tredici Altari (VI-IV sec. a.C.), il grande tumulo che era probabilmente l’heroon di Enea - la tomba simbolica dell’eroe troiano divinizzato – e gli straordinari reperti oggi presentati nel Museo Archeologico Comunale, danno corpo al mito della fondazione della città da parte dell’eroe troiano. Ed è il mito che ha fatto di Lavinium anche il luogo d’origine del popolo romano, quando si affermò la tradizione secondo la quale Romolo, il fondatore di Roma, discendeva dalla stessa stirpe di Enea, in quanto erede dei re di Alba Longa, città fondata da Ascanio che di Enea era il figlio.

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