Gaeta
gaeta
gaeta
Per lo storico e geografo greco Strabone (64 a.C.-20 d.C.), invece, il nome sarebbe derivato dalla voce dorica “kaiàdas” o “Kaiètas”, con il significato di insenatura, approdo, già per i navigatori fenici e greci (Geografìa, V, 3, 6)
IL MITO
Caieta si aggiunge quindi agli altri compagni di Enea, Miseno e Palinuro, che, sepolti lungo il litorale medio-tirrenico, hanno dato vita a toponimi costieri che ne perpetuano la memoria.
La storia di Caieta, su cui il racconto virgiliano non offre dettagli, è menzionata da diverse fonti storiche (Strabone, Diodoro Siculo e Dionigi di Alicarnasso) e in particolare da Ovidio (Metamorfosi 14, 441 ss.): “E ormai la nutrice di Enea, sepolta in un’urna di marmo, aveva un tumulo con un breve epitaffio: Qui riposa Caieta: il mio figlioccio, noto per la sua pietà (…) qui mi ha cremata”.
LA REALTA’ STORICA
In età romana Caieta (Gaeta) era un elegante sobborgo residenziale e porto del municipium della vicina Formiae. Lungo la via Flacca, che collegava i due centri e poi, attraverso Sperlonga e Terracina giungeva a Roma, si susseguivano una serie di lussuose ville litoranee. Le fonti letterarie ricordano qui le residenze di Scipione Emiliano, Caio Mario, Annia Faustina, Antonino Pio.Approfondimenti
Informazioni aggiuntiveLa città è strettamente legata al racconto del mitico viaggio di Enea, cantato da Virgilio nell’Eneide, come punto di arrivo dell’eroe troiano sulle coste laziali.
Secondo la tradizione ripresa da Virgilio, infatti, appena sbarcato Enea fece il primo sacrificio, in un luogo presso il fiume Numico (oggi Fosso di Pratica: Numico_1), dove poi sarebbe sorto un santuario dedicato a Sol Indiges. Inseguendo una scrofa bianca gravida, l’eroe percorse una distanza di 24 stadi: qui la scrofa partorì trenta piccoli e il prodigio offrì ad Enea un segno della volontà degli dei di fermarsi e fondare una nuova città. L’eroe incontrò Latino, il re della locale popolazione degli Aborigeni, il quale, dopo aver consultato un oracolo, capì che i nuovi arrivati non dovevano essere considerati degli invasori, ma come uomini amici da accogliere. Enea sposò dunque la figlia di Latino, Lavinia, e fondò la città di Lavinium, celebrando la nascita di un nuovo popolo, nato dalla fusione tra Troiani e Aborigeni: il popolo dei Latini. Il mito racconta che Enea non morì, ma scomparve in modo prodigioso tra le acque del fiume Numico e da questo evento fu onorato come Padre Indiges: Il padre capostipite.
La piazza pubblica della città aveva una pianta rettangolare, ornata sui lati lunghi da portici, su cui si aprivano diversi edifici: uno di questi aveva forse la funzione di “Augusteo”, luogo dedicato al culto imperiale, come sembra indicare il ritrovamento di splendidi ritratti degli imperatori Augusto, Tiberio e Claudio. Sul lato corto occidentale si affacciavano un edificio elevato su un podio, forse la Curia (luogo di riunione del governo locale), e un tempio, risalente ad età repubblicana.
Il santuario, situato ad est della città antica, era dedicato alla dea Minerva, che a Lavinium è dea guerriera, ma anche protettrice dei matrimoni e delle nascite. È stato trovato un enorme scarico di materiale votivo databile tra la fine del VII e gli inizi del III sec. a.C., costituito soprattutto da numerose statue in terracotta raffiguranti soprattutto offerenti, sia maschili che femminili, alcune a grandezza naturale, che donano alla divinità melograni, conigli, colombe, uova e soprattutto giocattoli: le offerte simboleggiano l’abbandono della fanciullezza e il passaggio all’età adulta attraverso il matrimonio
Eccezionale il ritrovamento di una statua della dea, armata di spada, elmo e scudo e affiancata da un Tritone, essere metà umano e metà pesce: questo elemento permettere di riconoscere nella raffigurazione la Minerva Tritonia venerata anche in Grecia, in Beozia, e ricordata da Viirgilio nell’Eneide (XI, 483): “armipotens, praeses belli, Tritonia virgo” (O dea della guerra, potente nelle armi, o vergine tritonia…)
Il culto del santuario meridionale nasce in età arcaica ed era caratterizzato da libagioni. Nella fase finale il culto si trasforma invece verso la richiesta di salute e guarigione, documentato dalle numerose offerte di ex voto anatomici. Sono state trovate iscrizioni di dedica che ricordano
Castore e Polluce (i Dioscuri) e la dea Cerere. La molteplicità degli altari e delle dediche è stata interpretata come testimonianza del carattere federale del culto, quindi legato al popolo latino nel suo insieme: ogni altare potrebbe forse rappresentare una delle città latine aderenti alla Lega Latina, confederazione che riuniva molte città del Latium Vetus, alleatesi per contrastare il predominio di Roma.
Dionigi di Alicarnasso, vissuto sotto il principato di Augusto, afferma di aver visto in questo luogo, ancora al suo tempo, nel I sec. a.C., due altari, il tempio dove erano stati posti gli dèi Penati portati da Troia e la tomba di Enea circondata da alberi: «Si tratta di un piccolo tumulo, intorno al quale sono stati posti file regolari di alberi, che vale la pena di vedere» (Ant. Rom. I, 64, 5)
Alba
Lavinium fu considerata anche il luogo delle origini del popolo romano: all’immagine di Roma nel momento della sua espansione e della crescita del suo potere era utile costruire una discendenza mitica da Enea, figlio di Venere, onorato per le sue virtù, per la capacità di assecondare gli dèi; di conseguenza si affermò anche la tradizione per la quale Romolo, il fondatore di Roma, aveva le sue origini, dopo quattro secoli, dalla medesima stirpe di Enea.
Secondo questa tradizione Ascanio Iulo, il figlio di Enea, aveva fondato Alba Longa, città posta presso l’attuale Albano, dando l’avvio a una dinastia, che serviva per colmare i quattrocento anni che separano le vicende di Enea (XII sec. a.C.) dalla fondazione di Roma (VIII se. a.C.), quando, dalla stessa stirpe, nacquero i gemelli Romolo e Remo, secondo la tradizione allattati da una lupa. Questi erano dunque i nipoti del re di Alba Longa. La madre era Rea Silvia e il padre il dio Marte. Romolo uccise Remo e poi fondò Roma nel 753 a.C. Lavinium diventava così la città sacra dei Romani, dove avevano sede i “sacri princìpi del popolo romano”.
Il Borgo sorge su una altura occupata nell’antichità dall’acropoli di Lavinium. In età imperiale vi sorge una domus, testimoniata da pavimenti in mosaico in bianco e nero (Borgo_1). Una civitas Pratica è ricordata per la prima volta in un documento del 1061, mentre nell’epoca successiva si parla di un castrum che fu di proprietà del Monastero di San Paolo fino al 1442. La Tenuta di Pratica di Mare, comprendente anche il Borgo, allora definito “Castello” (Borgo_2), divenne poi proprietà della famiglia Massimi e in seguito fu acquistata nel 1617 dai Borghese. Il principe Giovan Battista, nel tentativo di valorizzare il territorio con l’agricoltura, ristrutturò il villaggio nella forma che ancora oggi rimane, caratteristica per la sua pianta ortogonale e la sua unitarietà. Dalla metà dell’Ottocento la malaria, che devastava la campagna romana, causò lo spopolamento del borgo, finché Camillo Borghese dal 1880 si impegnò nell’opera di ricolonizzazione, restaurando il palazzo e intervenendo con una importante opera di riassetto della tenuta, dove fu impiantata una singolare vigna a pianta esagonale. Il Borgo e la tenuta rappresentano una preziosa area monumentale e agricola ancora intatta all’interno della zona degradata di Pomezia e Torvaianica.
Noto per i suoi abili e spregiudicati voltafaccia politici che gli avevano consentito di rimanere a galla in un periodo tormentato della tarda repubblica e per la sua proposta di conferire il titolo di Augustus al giovane Ottaviano nel 27 a.C., fu uno dei principali attori nel processo di creazione del principato. Percorse una brillante carriera pubblica arrivando a ricoprire le più alte cariche politiche e militari. Come enuncia l’iscrizione dedicatoria sulla porta di ingresso del monumento, fu generale di Cesare, console e censore, dedusse la colonia triumvirale di Benevento e, durante il suo proconsolato in Gallia nel 43 a.C., quelle di Lugdunum (Lione) e Augusta Raurica (Basilea). A lui scrisse Cicerone la proverbiale frase: “Hai conseguito le mete più alte, guidato dal tuo valore e accompagnato dalla fortuna”.
Lo straordinario sepolcro è costituito da un corpo cilindrico merlato (diam. m. 29) su alto zoccolo: forse era sormontato da un cono di terra sistemato a giardino, concluso in cima da una statua del defunto, come nel mausoleo di Augusto. L’esterno è rivestito da filari di blocchi in pietra e decorato da un fregio dorico recante scolpiti armi e simboli militari; l’interno, in opera reticolata, si articola in un ambulacro anulare che segue il perimetro del tamburo, su cui si aprono quattro celle funerarie disposte a croce, costruite attorno a un pilastro centrale che, prolungato in alto, sosteneva l’immagine del titolare.
Connesso a una villa era anche il mausoleo di Sempronio Atratino che, invece, fu spogliato del rivestimento esterno in blocchi di calcare e delle fasce decorative per riutilizzarli nella costruzione del pregevole campanile della Cattedrale di Gaeta (XII secolo). Architettonicamente affine a quello di Planco, mostra tre celle funerarie che si aprono su un corridoio anulare; lo spazio della quarta cella fu destinato a una cisterna. Il sepolcro era decorato, in contrapposizione non dissimulata con il precedente, con un fregio dorico a metope raffiguranti insegne e strumenti rituali. Infatti, nonostante le capacità militari (fu prefetto della flotta di Marco Antonio, console, trionfatore per i successi in Africa) Sempronio Atratino, suicidatosi forse nel 7 d.C. per sottrarsi a una grave malattia, tenne in modo particolare alla sua dignità di augure. Nel testamento lasciò tutti i suoi beni ad Augusto.
In coincidenza con il progressivo declino di Formiae, colpita a partire dal V secolo dalle scorrerie degli eserciti invasori (Goti, Vandali, Bizantini, Longobardi), nell’alto Medio Evo si sviluppò un borgo, il quartiere di S. Erasmo, situato alla base di un promontorio proteso nell’ampio golfo di Gaeta (antico sinus Amyclanus). L’insediamento ebbe una splendida fioritura grazie anche alla sua lontananza dalla via Appia a quel tempo percorsa da truppe e predatori.
Per saperne di più
Sui monumenti funerari di Gaeta e l’età augustea:
AA.VV., Formiae. Una città all’inizio dell’Impero, Bimillenario della morte di Augusto 14 -2014 (a cura di N. Cassieri ), Formia 2014
Su Gaeta dalle origini alle soglie dell’età moderna:
P. Corbo, M.C. Corbo, Gaeta. La storia, Gaeta, vol. I (1985), II e III (1989)
M. D’Onofrio, M. Gianandrea (a cura di), Gaeta medievale e la sua Cattedrale, Roma 2018
IN BREVE
Secondo Virgilio Caieta avrebbe tratto il nome da quello della nutrice di Enea che fu sepolta in questo luogo. Gaeta fu celebrata in ogni tempo per la varietà dei panorami, la mitezza del clima e la bellezza del paesaggio: soprattutto dalla tarda repubblica accolse ricche ville di esponenti dell’aristocrazia urbana e dei ceti dominanti locali (cavalieri, imprenditori o anche arricchiti dell’ultima ora), e perfino di membri della famiglia imperiale, che vi si insediarono, occupando ogni insenatura e ogni angolo del litorale.
Contatti
Mappa
Modulo di contatto
Donec leo sapien, porta sed nibh rutrum, bibendum posuere libero.